
Pietre d'inciampo a Firenze
Sarà capitato, camminando, di notare i piccoli quadrati lucenti che sono incastonati nel marciapiede: sono delle targhe che ricordano le vittime della Shoah. Ognuna racconta una storia: storia di uomini e di donne che ci fanno inciampare, soffermare per non essere mai dimenticati. Nate come creazioni dell’artista Gunther Demnig, le Stolpersteine o Pietre d'inciampo sono ormai presenti in numerose città europee.
Quello che proponiamo qui è un itinerario alla ricerca delle pietre d'inciampo di Firenze, una ricostruzione di storia ebraica e cittadina. Il progetto è voluto e realizzato dalla Comunità Ebraica insieme al Comune di Firenze.
Per maggiori informazioni si può accadere a questo link
Scopri anche il percorso sulla Firenze Ebraica, che comprende numerosi monumenti a partire dalla Sinagoga di Firenze
Comune di Firenze
I luoghi
Tappe
6 pietre: Rodolfo Levi, Rina Procaccia, Noemi Levi, Angelo Sinigaglia, Amelia Procaccia, Alda Sinigaglia
Il nipote di Rodolfo Levi ha voluto, col sostegno morale dell’altra sua nipote, con una ricerca lunga e laboriosa, riannodarne le sparse notizie biografiche e in particolar modo quelle riguardanti la tragica fine di dieci persone travolte a Firenze dalla Shoà. A questo proposito desidera ringraziare, per il sostegno generale ricevuto, l’arch. Renzo Funaro, la dott. Sara Funaro, assessore del Comune di Firenze e il dott. Ugo Caffaz; per la raccolta dei dati anagrafici utili alla ricostruzione degli avvenimenti, la dott. Antonina Bocci Bargellini e il direttore dott. Luca Brogioni col personale dell’Archivio Storico del Comune di Firenze.
Nel 1910 Rodolfo Levi, laureato in lettere e finiti gli studi al Collegio, sposò Rina (Ester) Procaccia, cugina di un Arrigo Procaccia (1900-1958), maresciallo maggiore della Guardia di Finanza, congedato per motivi razziali nel 1939. Il matrimonio fu celebrato dallo stesso Margulies. Fu quindi nominato rabbino presso l’Università Israelitica di Lisbona dove compare come celebrante di matrimoni. Rientrato a Firenze, nasceranno i figli Noemi (14 aprile 1911) e Elio (29 settembre 1912) e più tardi, a Roma, Lea (1921). Nel 1915 Rodolfo Levi fu nominato Rabbino di Pitigliano.
Con lo scoppio della Prima guerra mondiale venne istituito il Rabbinato militare volontario: Levi rispose per primo con entusiasmo nel maggio 1915 e svolse così, tra grandi difficoltà, attività verso i feriti, le famiglie dei caduti, curando anche l’organizzazione della celebrazione delle festività ebraiche al fronte, anche per i soldati ebrei prigionieri. Il padre di un soldato gli scrive:
… ricevo una lettera di mio figlio soldato Saqui Giorgio il quale mi ha fatto il racconto di come ha passato il Santo Kippur unitamente a lei Sig. Cappellano Militare … mi scrive la contentezza di avere trovato in Lei un vero padre amoroso … Vengo con la presente a ringraziarla di tutto cuore … per tutto ciò che ha fatto a favore di mio figlio mai lo dimenticherò … mio figlio ha avuto il merito di trovare Lei che è stato per lui più di un padre. Voglia Iddio Benedetto accordarle lunga vita felice e prosperosa.
Nel 1917 fu, con trepidazione, testimone degli avvenimenti della rivoluzione antizarista e della conseguente subitanea aria di una situazione più sopportabile per gli ebrei russi. Dopo una breve parentesi romana, nel 1926, Levi fu chiamato a Modena a ricoprire la cattedra di Rabbino Capo.
Con le leggi per la difesa della razza, promulgate nel 1938, gli ebrei, come ben sappiamo, perdono i diritti civili conquistati gradualmente e a fatica con l’emancipazione.
Il rabbino Levi compare nelle schedature della Prefettura, nella categoria più “eversiva” dei “sionisti”
Risulta così come a Modena Rodolfo Levi fosse ben noto al regime e considerato da sorvegliare.
Nel periodo che seguì l’8 settembre 1943, gli Ebrei, già discriminati dalle leggi del 1938, erano considerati nemici ed era a rischio la loro stessa vita. Sottoposti a razzie di massa, erano costretti a vivere nascosti e in clandestinità, ma spesso non riuscirono a sfuggire alla cattura ad opera delle bande della Repubblica Sociale a cui seguiva il più delle volte la deportazione nei campi di sterminio tedeschi.
La situazione, che peggiorò costantemente, indusse il rabbino a trasferirsi, nel periodo più pericoloso, nella natale Firenze, dove aveva parenti stretti e pensava di avere più possibilità di manovra.
Nella nostra città, sabato 6 novembre 1943 era già avvenuta la razzia degli ebrei cui seguirà il 9, la deportazione: oltre trecento persone furono caricate al binario 16 sui treni diretti verso Auschwitz.
Il 6 febbraio 1944, il rabbino Rodolfo LEVI fu catturato mentre si recava dal suo amico Arturo Orvieto con cui era solito incontrarsi. La casa degli Orvieto era stata piantonata e Rodolfo Levi fu segnalato e fermato e quindi costretto dai suoi aguzzini a condurli all’abitazione qui in via del Gelsomino dove, presso la famiglia Morandi, aveva trovato rifugio con la famiglia. Furono così catturati anche la moglie Rina Procaccia e la figlia Noemi.
Purtroppo insieme ai Levi erano rifugiati anche altri loro parenti: la famiglia costituita da Angelo SINIGAGLIA, sua moglie Amelia Procaccia, sorella di Rina Procaccia (moglie del rabbino), e la loro figlia Alda di appena undici anni. Anche loro furono così arrestati in quello stesso 6 febbraio 1944.
Dopo la detenzione in carcere, la famiglia del rabbino Levi fu trasferita al campo di concentramento e transito di Fossoli (8 febbraio 1944) Il 22 febbraio, la famiglia è deportata ad Auschwitz col convoglio n. 8, lo stesso che trasportava Primo Levi, ed eliminata all’arrivo il 26 febbraio. I Sinigaglia partirono con un convoglio successivo (5 aprile 1944). La piccola Alda e la madre perirono ad Auschwitz; il padre Angelo fu condotto dal campo di sterminio di Auschwitz a quello di Mauthausen, quando il primo fu evacuato dai nazisti e liberato. Morì nel marzo del 1945.
2 pietre: Giuseppe Siebzehner, Amalia Koretz
Giuseppe Siebzehner era nato a Vienna terzo di cinque figli da padre polacco, Shaia Bradl, e mamma italiana, Marianna Vivanti di Mantova. Amalia Koretz, detta in famiglia Malka, era nata in Cecoslovacchia, quinta di undici figli, da una famiglia che vantava fra i suoi antenati il rabbino Pinkhas di Koretz, uno dei fondatori del Chassidismo.
Giuseppe e Amalia si conobbero nella località termale di Karlsbad, si sposarono e vennero ad abitare a Firenze, dove Giuseppe aveva avviato un commercio di foglie d’alloro, e nel 1902 con l’aiuto di tre soci rilevò in via del Corso l’Emporio Bonaiuti, che poi divenne il Duilio 48.
Qui a Firenze nacquero i due figli Giorgio, mio nonno materno, e Federico, e in questa casa hanno abitato diversi anni, ospitando anche la nonna Marianna (conservo diverse foto di quegli anni sereni nel diario di mio nonno dal quale sono tratte le notizie che riferisco).
Giuseppe è sempre stato un uomo molto laborioso, fin da quando all’età di tredici anni, rimasto orfano del padre, fu mandato a lavorare nell’emporio di un conoscente a Trieste.
Fra i suoi detti che si tramandano in famiglia c’è questo: “chi non onora il soldo non merita la lira”, e lui conosceva evidentemente cosa vuol dire guadagnarsi da vivere. Con la ditta di famiglia ha dato da vivere a molte famiglie fiorentine, non si è mai dimenticato di accudire la madre, la sorella Eva, il cui marito Horvath, con il suo aiuto, aprì un ingrosso di giocattoli in Via del Giglio, e il fratello Ernesto, gravemente handicappato, per il quale fece costruire una palazzina sul lungomare di Viareggio, dove oltre all’abitazione al primo piano, al piano terreno aprì una succursale del 48. Giuseppe non ebbe mai un’automobile, amava viaggiare in treno e visitare le località turistiche con la famiglia, si portavano dietro i cestini da viaggio preparati in casa, perché come lui diceva, “siamo dei cerotti”, soffrivano tutti di stomaco.
Il Duilio 48 fu requisito durante la prima Guerra, e di nuovo a causa delle leggi del 38, secondo la normativa fascista che vietava a un ebreo di possedere una ditta che impiegasse cento o più persone, affidando la gestione a un fascista di provata fede. Mia nonna raccontava che a un dato momento, quando la situazione stava precipitando, il gestore disse a Giuseppe di lasciare tutto a lui “tanto per lei signor Siebzehner non c’è più speranza”. Giuseppe non si fece intimorire: “se non ci sarò io, ci saranno i miei figli”.
Giuseppe e Amalia avevano carte di identità false, ma non fecero in tempo a usarle, furono denunciati e arrestati, oramai ottantenni e ammalati, in una casa di cura dove erano ricoverati. Dal treno che li portava a Auschwitz Giuseppe lanciò una cartolina su cui era scritto “In viaggio verso destinazione sconosciuta”.
Ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile con la posa di queste pietre di restituire dignità umana a due persone troppo a lungo dimenticate.
3 pietre: Aldo Levi, Giulio Levi, Adriana Castelli
Un appartamento in questa casa, in piazza delle Cure 7, al primo piano a sinistra, è stata l’ultima abitazione dei nostri nonni paterni Giulio Levi e Adriana Castelli e del figlio Aldo.
A noi, Adriana e Giulio Levi, unici nipoti viventi, poco resta di loro: Adriana non era nata, Giulio aveva quasi sette anni. Resta qualche fotografia e qualche racconto di nostra madre, Matilde Vita. Nostro padre Sergio è morto presto, nel 1966, quando ancora si raccontava poco del periodo delle leggi razziali e della guerra non solo fuori ma anche in famiglia: si tendeva a chiudere con un passato così doloroso. In particolare nostro padre, che aveva perso i genitori e un fratello, non è mai tornato sull’argomento.
Giulio Levi era nato a Casale Monferrato nel 1878 e aveva tre fratelli, Adriana Castelli era nata a Livorno nel 1886 e aveva due sorelle.
I nonni Levi si sono sposati nel 1907; hanno avuto tre figli, Cesare del 1908, laureato in Scienze Economiche, Sergio del 1910 laureato in medicina, Aldo del 1911 laureato in legge.
Nonno Giulio lavorava per la Fondiaria e vi si recava in carrozza nella sede di piazza della Repubblica. Ci sono fotografie del 1925, Di Nonna Adriana resta solo una foto ritratto degli anni 20. Quel poco che sappiamo della loro vita deriva da quanto ci ha raccontato nostra madre. Sappiamo che entrambi (ma soprattutto Giulio, affetto da vari problemi di salute) erano poco adattabili alle condizioni di vita imposte dalla guerra e dalle persecuzioni razziali. Nell’autunno del 1943, sollecitati a trasferirsi nelle vicinanze del figlio Sergio, che si era rifugiato con la famiglia alla Badiaccia vicino a Greve, non riuscirono ad adattarsi alla vita scomoda di una sistemazione in campagna e tornarono presto a Firenze nella casa in piazza delle Cure.
Aldo era avvocato, e fino a che ha potuto ha esercitato la professione a Firenze. Dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938 tentò invano di trovare lavoro in Inghilterra, dove si incontrò con Sergio, anche lui alla vana ricerca di un impiego. Tornato a Firenze, ossessionato dalla impossibilità di lavorare ebbe una crisi depressiva e tentò il suicidio all’inizio degli anni 40. Raggiunse la famiglia del fratello Sergio alla Badiaccia da dove fuggì, di nuovo a Firenze, terrorizzato dopo che nelle vicinanze erano stati catturati vari membri della famiglia Passigli, nostri parenti dal lato materno.
Il primo marzo 1944 Aldo cadde in una trappola, un falso appuntamento di lavoro in piazza della Repubblica organizzato da un falso amico; lì fu catturato dai nazifascisti e spogliato di quanto aveva addosso. Nello stesso giorno i nazifascisti arrestarono in casa i genitori Giulio e Adriana e svuotarono la casa di tutto il suo contenuto, dai mobili alla biancheria intima. Tutti e tre furono trasferiti in carcere, gli uomini alle Murate e Adriana nel carcere di Santa Verdiana. Pochi giorni dopo furono trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli e da lì ad Auschwitz dove i nonni furono eliminati subito, mentre Aldo morì durante una “marcia della morte”, un trasferimento da Sosnowitz (un sottocampo di Auschwitz) a Mauthausen nel mese di gennaio 1945, pochi giorni prima della liberazione del campo da parte dell’esercito sovietico.
Tre giorni dopo, con l’angoscia che ci si può immaginare, Sergio con la moglie, i figli e il fratello Cesare, iniziava un pericoloso viaggio verso la Svizzera grazie all’interessamento di alcuni membri della Resistenza, che lo sconsigliarono di restare a Firenze, dove non avrebbe potuto far niente per i familiari imprigionati e dove per la sua famiglia sarebbe enormemente aumentato il rischio di fare la stessa fine.
1 pietra - Levi Clotilde
Felicita Clotilde Levi era nata il 17 luglio del 1864 e quindi nel gennaio del 1944 stava per compiere 80 anni: a quell'epoca si poteva considerare assai vecchia e non essendo idonea a compiere lavori in Germania nei primi tempi si riteneva al sicuro dalla deportazione ed era rimasta nella pensione Simi di piazza Donatello dove, vedova da un decennio, si era ritirata dopo la vendita del villino in via Masaccio; dal marito, il pisano Leonardo Nissim, cognato del noto letterato Alessandro D'Ancona, non aveva avuto figli ma era la “zia”, affettuosa e disponibile, dei bimbi figli della suoi numerosi congiunti.
Il padre Carlo Levi apparteneva ad una ricca famiglia di Reggio Emilia trasferitasi a Firenze a metà del secolo precedente, e per parte materna discendeva dal grande rabbino Isaac Lampronti. Cresciuta negli agi in vecchiaia si trovava in grandi ristrettezze finanziarie, ma tra i suoi oggetti trovava sempre un regalino da fare ai suoi congiunti nelle occasioni liete e riusciva a farsi amare anche dai bambini ai quali cercava anche di dare utili insegnamenti!
Il 6 novembre, nella terribile “retata” compiuta dai nazi fascisti, era stata presa la nipote Gina, figlia della sorella Emma, con il marito Giulio Segrè e le figlie Lydia e Elena.
2 pietre: Giorgio Levi delle Trezze, Haya Xenia
Giorgio Levi delle Trezze, ultimo dei figli di Cesare e Giuseppina Levi, nacque a Venezia nel 1870. Laureato in ingegneria a Padova, sposò la russa Xenia (Haya) Poliakoff (1872-1944), figlia del banchiere miliardario Lazar e di Rozalia Wydrina, che aveva conosciuto a Parigi.
Giorgio Levi fu nominato console di Persia e il re Umberto I gli diede il titolo di Barone. I coniugi andarono ad abitare a Roma nella elegante via Boncompagni, dove fecero ristrutturare una villa dal cugino Carlo Pincherle Moravia, il padre dello scrittore Alberto Moravia.
L’Orfanotrofio israelitico di Roma fu fondato nel 1902 non solo dai Levi, che vi profusero energie e la maggior parte dei milioni necessari, ma anche da molti altri benefattori, Per quanto riguarda l’ospedale veneziano Umberto I, che si trova a Cannaregio (non lontano dal ghetto), Giorgio e Xenia furono tra i fondatori.
Il baronato, ottenuto nel 1899, ha come predicato quello di una località del basso Veneto che era stato oggetto di vaste bonifiche da parte della famiglia di Giorgio Levi.
La tenuta delle Trezze era composta da terreni in parte coltivati da affittuari del posto e in parte paludosi.
Nel frattempo i coniugi, che a Firenze abitarono in un primo tempo in Lungarno degli Acciaioli 8, si erano fatti costruire due edifici per proprio uso, uno a Firenze in piazza Oberdan, oggi trasformato in residence, e l’altro, di cui si è già detto, a Roma.
Prima della guerra i baroni avevano prudentemente trasferito parte del loro capitale liquido in Svizzera. Appare quindi incomprensibile che, dopo l’armistizio e la retata degli ebrei romani del 16 ottobre 1943, a cui erano scampati per un soffio rifugiandosi a Firenze, non avessero immediatamente intrapreso la fuga alla volta di quel Paese. Forse non fecero in tempo, o forse si illudevano. Tant’è vero che, nonostante le retate a Firenze cominciate agli inizi di novembre del 1943 e i coniugi vissero nella loro casa ancora fino al febbraio successivo.
La baronessa fu arrestata a Firenze insieme con il marito Giorgio Levi delle Trezze il 21 febbraio 1944 dal comando tedesco. Entrambi ultrasettantenni, avrebbero dovuto essere esentati dalla cattura. I Levi delle Trezze furono deportati da Firenze un mese dopo e, dopo essere transitati per Fossoli, trovarono la morte ad Auschwitz.
1 pietra: Lucia Levi in Levy
Lucia Levi era l'ultima rappresentante di una famiglia LEVI, sefardita, presente a Firenze da alcuni secoli e ancora assai attiva in campo ebraico, dove vari suoi antenati avevano avuto l'incarico di “cancelliere” della Comunità ebraica.
Suo nonno Salvatore era stato massaro e direttore del tempio Levantino.
Aperto il ghetto si era trasferito con la sua numerosa famiglia (undici figli viventi!) in un bel palazzetto tutt'ora esistente nella vicina piazza dei Giuochi.
Lucia era la figlia minore di Ottavio, buon pittore, di cui sono esposti nel nostro museo i tre quadretti che ci tramandano il ricordo delle piccole sinagoghe di via della Oche dove, all'interno della casa già dei Finzi, erano stati ricostruiti, con i loro arredi, i due luoghi di culto del ghetto.
La madre di Lucia invece apparteneva alla famiglia SFORNI, nota per le sue collezioni di quadri, che fece fare alla figlia, giovane sposa del corfiota Alberto LEVY, il bellissimo ritratto donato dai suo eredi alla nostra Comunità.
3 pietre: Abramo Genazzani, Elena Genazzani, Mario Melli Genazzani
Elena, suo figlio Mario e suo fratello Abramo sono stati arrestati reclamando il proprio diritto a vivere un ultimo brandello di dignità dell’essere.
Elena e Mario furono arrestati, scoperti per strada, dopo il copri-fuoco, vicino a casa e, in quell’occasione, avrebbero arrestato, per verifiche, solo Mario. Elena volle condividere il destino del figlio, qualsiasi esso fosse. Arrivarono ad Auschwitz sullo stesso convoglio. Non ne fecero più ritorno.
Abramo cadde in una retata in un locale fiorentino del centro, scoperto, nel corso degli accertamenti, come ebreo, quindi trattenuto per poi arrivare ad Auschwitz insieme a David, anche lui suo fratello.
Racconti trasmessi in famiglia narrano di un momento particolare del viaggio di trasferimento verso il campo di sterminio. C’era un punto del percorso nel quale il treno doveva rallentare per affrontare una curva impegnativa: quello era il momento adatto per fuggire. Abramo, il più giovane ma meno atletico, invitò David a tentare la fuga, avrebbe potuto farcela. David rifiutò: non avrebbe mai lasciato solo il proprio fratello. Insieme condivisero il destino di morte che li attendeva.
Memoria del loro internamento nel campo di sterminio lo ritroviamo nel libro di Gilberto Salmoni “Una storia nella storia-ricordi e riflessioni di un testimone di Fossoli e Buchenwald”. L’episodio riporta “i due fratelli Genazzani” uniti, ormai stremati da Buchenwald, ma uniti fino in fondo.
La madre segue il figlio. Il fratello maggiore segue il minore. Noi continuiamo ad amarli, qui, ora, al presente come al passato. Anche se non conosciuti, anche se il loro ricordo si assottiglia sempre di più, per mancanza di testimonianze ancora vive, loro sono il nostro “mai più!”. Quel senso di reciproca tutela e condivisione del destino, quell’appartenersi fino alla fine del proprio tempo, è stato trasmesso da Enrichetta Ambonetti, moglie di David, a noi nipoti, come gli alti valori cui riferirsi nel nostro vivere quotidiano.
1 pietra: David Genazzani
"David Genazzani, mio nonno, marito di Enrichetta Ambonetti, il padre di mia madre, Gianna, e di mia zia, Renata, è nato a Firenze il 30/11/1907. Arrestato a Grassina, il 19 maggio 1944, fu detenuto a Firenze, poi a Fossoli e il 02/07/1944 arrivò ad Auschwitz da cui fu trasferito, dopo un mese, a Buchenwald, dove, tra atroci tormenti dovuti alla cancrena originata dal morso di un cane delle SS, è morto il 10/03/1945.
Mio nonno era violinista, compositore e gioielliere. Ed era un uomo forte, atletico e solare. Amava vivere, suonare, scherzare. Di lui restano poche fotografie: in alcune suona il suo violino, e sono le uniche in cui non sorride, compìto nel suo ruolo di musicista. Ma in tutte le altre, il suo sguardo non guarda mai all’obiettivo ma in un luogo indefinito, fuori dalla realtà fissata dal fotogramma, e ride: un sorriso caldo, avvolgente ma leggero, tutta la mimica facciale partecipa alla gioia e mi porta lontano da questi giorni così nuovamente bui, così drammaticamente dimentichi del passato: mi riporta a lui e di lui cerco le tracce nel sorriso, negli occhi, negli zigomi, miei, dei miei fratelli, di mia madre e di mia zia.
L’operetta “‘I peccato”, libretto di Bruna Battaglini e musiche di mio nonno, narra la storia di una giovane indecisa tra due fidanzati. Tra i canti presenti nell’operetta ce n’è uno, il “coro degli escursionisti”, da cui traggo queste parole:
“ Dai monti ritorniam, da quelle vette, là sulle cime al sol e il sol ci
brilla ancor nel cor, mentre cantando ritorniamo pien d’ardor. Uniti,
noi marciam, verso il ritorno, giù verso la città, e ognuno si affaccia
al suo balcon, ognun ci chiede un fior.”
Mio nonno, dalle terre oltre le Alpi, non ha mai fatto ritorno. Nessun fiore al suo passaggio, nessun sorriso a tappeto del suo ritorno. A fronte dell’ignobile denuncia che portò alla deportazione di mio nonno, tante le persone che hanno aiutato la mia famiglia. Voglio ricordare il dott. Mugnai, il signor Galliano Bargelli, che ospitò nonna e figlie la notte dell’arresto, e che sarà partigiano, il signor Levi, tornato da Buchenwald, che ha raccontato gli ultimi istanti di vita di David attraverso l’intervista rilasciata al giornale “L’Arno”.
Mia nonna, simbolicamente, con la sua forza gentile, con la sua caparbia fiducia nell’amore, eppure consapevole della fragilità della pace e del rispetto reciproco, ha voluto che sulla sua tomba venisse riportato il ricordo del suo amato marito e di lui, in vita, poche volte ne parlava. Perché parlarne al passato era ammetterne la morte lontano dalle sue braccia. E non voleva smettere di sentire il suo violino cantare per casa. Questa casa davanti alla quale siamo oggi."
5 pietre: Amelia Gallico, Augusto Gallico, Lucio Gallico, Sergio Gallico, Giulia Pacifici
Di loro so soprattutto quello che ho appreso dai racconti e dal libro di mia madre, Nadia Gallico Spano, e da un ricordo di Sergio che Bianca Bianchi ha riportato nelle sue memorie.
Dello zio Augusto noi figlie sentimmo parlare da mia madre, figlia di Renato, suo fratello maggiore, fin da piccole. Ci raccontava di un viaggio indimenticabile che lei e sua sorella Diana avevano compiuto nell’estate del ‘35 con la famiglia dello zio da Tunisi, dove risiedevano allora i Gallico, - emigrati da Firenze in cerca di fortuna sul crinale del nuovo secolo ventesimo, - attraverso Firenze e Venezia fino a Cortina d’Ampezzo.
Fu un viaggio meraviglioso che rinsaldò i già forti legami famigliari e trasformò la relazione tra cugini in una profonda amicizia. Sergio restò a Firenze dove si iscrisse alla facoltà di matematica. Le ragazze tornarono a Tunisi e anche gli zii.
I Gallico erano giunti in Tunisia richiamati dalla figlia maggiore, Clara, che vi aveva trovato un impiego come istitutrice e insegnante di pianoforte. Partirono tutti: il vecchi Attilio – che, in seguito, ammalatosi, sarebbe poi tornato per morire a Firenze – sua moglie Laudomia, i figli Renato, Valentina, Margherita e Augusto, che divenne in seguito insegnante di lettere sposò Amelia Galligo, una donna semplice, ricca di buon senso e di umanità, che aveva lavorato come copista di quadri. Nadia scrive che “in lei si avvertivano le caratteristiche dell’indole e della cultura fiorentina…. Il fascismo non le piaceva ma non diceva nulla per non nuocere al marito”. Augusto, infatti, benché tiepido, si era iscritto al fascio e fu questa l’origine del dissidio con Renato che finì per guastare l’armonia tra i due fratelli. In quanto insegnante in un liceo italiano, Augusto si trovò stretto tra le pressioni da parte del Consolato fascista e il disagio nei confronti di suo fratello, antifascista come sua moglie e i suoi figli, che gli aveva garantito istruzione e benessere poiché aveva assunto la responsabilità di tutti i membri della famiglia. Renato divenne poi avvocato ed esercitò la professione fino all’emanazione delle leggi razziste. Le discussioni tra i due fratelli furono penose e le loro posizioni inconciliabili. Augusto chiese il trasferimento ad Alessandria d’Egitto e poi disgraziatamente tornò a Firenze.
Nel maggio del ’45 la famiglia della zia Valentina, che aveva sposato un Volterra e viveva a Parigi, su suggerimento del Consolato italiano nella capitale francese si rifugiò a Firenze, perché in Francia erano già cominciate le deportazioni, di cui fu vittima anche la consuocera di Valentina, l’altra nonna di Vivianne Montias. Ma dopo l’8 settembre fu chiaro che l’Italia era divenuta un luogo altrettanto pericoloso: la famiglia di Valentina si nascose disperdendosi e scongiurò Augusto perché facesse altrettanto. Ma lui non credette che il fascismo avrebbe permesso quello che accadeva in Francia e non volle lasciare la sua casa. Sergio intanto aveva preso contatto con la Resistenza e viveva fuori Firenze. Sfortunatamente decise di andare a trovare i suoi proprio il giorno in cui la famiglia fu arrestata. Furono portati via tutti, Sergio con loro.
24 pietre: Ospizio “Settimio Saadun”
L’ente benefico Ospizio Israelitico“Settimio Saadun” era stato fondato nel 1870 come ricovero per i bisognosi ebrei anziani e malati. Durante la guerra e sotto l’occupazione tedesca continuò a svolgere le sue funzioni, fino alla tragica mattina del 24 maggio 1944 in cui un camion di militi nazisti si fermò all’ingresso della struttura (allora in viale Duca di Genova 6, attuale viale Amendola) e catturò 24 ospiti: ventun persone anziane, dieci uomini e undici donne, e insieme tre membri di una famiglia francese: la madre venticinquenne e i suoi figli, Renée, una bambina di due anni, e il suo fratellino Sergio di un anno. Due giorni dopo l’arresto, i catturati dell’Ospizio fiorentino furono trasferiti da Firenze al campo di Fossoli (presso Carpi, in provincia di Modena), e da lì il 26 giugno 1944 furono deportati al campo di sterminio di Auschwitz, dove giunsero quattro giorni dopo per essere tutti assassinati all’arrivo. Solo una vecchia donna non arrivò mai in Polonia, perché morì nel campo di Fossoli prima della partenza del convoglio. La deportazione e l’uccisione di vecchi, malati, donne e bambini inermi era parte integrante del progetto di distruzione degli ebrei europei ideato e pianificato dai nazisti e attuato su scala continentale anche grazie all’aiuto fattivo ricevuto dai regimi collaborazionisti, nel nostro paese dalla Repubblica Sociale Italiana (testo a cura di Marta Baiardi).
Qui di seguito i nomi delle persone deportate e uccise:
Guido Passigli
nato 1882
deportato
Auschwitz
assassinato 30.06.1944
Arturo Servi
nato 1868
deportato
Auschwitz
assassinato 30.06.1944
Corinna Piperno
nata 1874
deportata
Auschwitz
assassinata
Renée Frieder
nata 1942
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
Regina Schaller
nata 1919
deportata
Auschwitz
assassinata
Sergio Frieder
nato 1943
deportato
Auschwitz
assassinato 30.06.1944
Claudio Caro
nato 1864
deportato
Auschwitz
assassinato
Giovacchino Servi
nato 1868
deportato
Auschwitz
assassinato 30.06.1944
Aldo Racah
nato 1890
deportato
Auschwitz
assassinato
Gemma Bemporad
nata 1863
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
Alberto Pacifici
nato 1870
deportato
Auschwitz
assassinato 30.06.1944
Ester Della Pergola
nata 1866
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
Renato Coen
nato 1909
deportato
Auschwitz
assassinato
Magenta Nissim
nata 1860
deportata
Fossoli
morta 12.06.1944
Elisa Orvieto
nata 1875
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
Diamante Coen
nata 1864
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
Raffaello Blanes
nato 1877
deportato
Auschwitz
assassinato 30.06.1944
Giacomo Luisada
nato 1863
deportato
Auschwitz
assassinato 30.06.1944
Enrichetta Sornaga
nata 1857
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
Elena Calò
nata 1854
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
Ester Calò
nata 1865
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
Marietta Massa
nata 1859
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
Amedeo Bemporad
nato 1869
deportato
Auschwitz
assassinato 30.06.1944
Ester Sessi
nata 1863
deportata
Auschwitz
assassinata 30.06.1944
1 pietra: Diodato Gastone Sadun
La pietra è stata posta in via delle Oche all’altezza del negozio di merceria di proprietà dello zio Leone Camerino, dove Diodato Gastone lavorava. E proprio all’interno del negozio, il 13 dicembre 1943, fu catturato mentre stava già preparando la fuga in Svizzera insieme al fratello. Diodato Gastone venne trasferito nel carcere di Milano pochi giorni dopo il suo arresto a Firenze e deportato ad Auschwitz il 30 gennaio 1944. Dopo alcuni mesi di lavoro in una miniera di carbone, Diodato Gastone Sadun fu di nuovo condotto ad Auschwitz, dove fu ucciso il 31 ottobre 1944.
1 pietra: Angela Todesco Benedetti
Angela Todesco, figlia di Eugenio Todesco e Vittoria Frank è nata a Venezia il 2 luglio 1893. Coniugata con Umberto Benedetti, viveva a Firenze in Via degli Speziali 3.
Arrestata a Sondrio e deportata nel campo di sterminio di Auschwitz, non è sopravvissuta alla Shoah ed è morta il 29 febbraio 1944.
1 pietra: Rudolf Levy
Rudolf Levy, figlio di Julius Levy e Therese Riess è nato in Germania a Stettino il 15 luglio 1875. Coniugato con Genia Schindler, abitava in piazza Santo Spirito 9. Arrestato il 12 dicembre 1943 a Firenze, fu deportato nel campo di sterminio di Auschwitz nel quale fu assassinato il 6 febbraio 1944.
1 pietra: Archimede Piani
La pietra apposta in Via Mannelli 25 ricorda il luogo dove fu catturato Archimede Piani, cittadino di Pontassieve. Il 27 aprile 1944, dopo meno di due mesi di prigionia, fu prelevato e deportato sul treno che dal binario 6 della Stazione di Santa Maria Novella condusse l’8 marzo a Mathausen moltissimi deportati politici della provincia fiorentina. Nel campo di Gusen Archimede perse la vita e lì, nel Memoriale del Campo, una targa apposta dal Comune di Pontassieve e dalla famiglia Piani, ricorda la sua tragica morte.
4 pietre: famiglia Della Torre
Oliviero Della Torre e Anna Lina Fiano, con i loro figli Massimo e Manlio Della Torre furono arrestati il 30 settembre 1943 e deportati ad Auschwitz. Nessuno di loro sopravvisse.
2 pietre: Annetta Disegni Vogelmann e Sissel Vogelmann
Annetta Disegni Vogelmann, nata nel 1904 e sua figlia Sissel Vogelmann, nata nel 1935 abitavano in via Manin 3. Entrambe furono arrestate il 20 dicembre 1943 e deportate ad Auschwitz dove furono assassinate lo stesso giorno, il 6 febbraio 1944.
4 pietre: famiglia Segré
Giulio Segré, figlio di Attilio Segré e Benvenuta Finzi è nato in Italia a Bozzolo il 13 ottobre 1878. Coniugato con Gina Cave Bondì, viene arrestato insieme con la moglie e le figlie Lidia e Elena il 6 novembre del 1943. Saranno deportati nel campo di sterminio di Auschwitz da dove nessuno di loro ritornerà.
1 pietra: Leone Camerino
Leone Camerino, figlio di Samuele Camerino e Michelina Paggi è nato a Pitigliano il 13 dicembre 1870. Fu arrestato a Firenze il 6 novembre 1943 e deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, dove pochi giorni dopo è stato assassinato.
1 pietra: Bruno Baldini
Strenuo oppositore al fascismo, Baldini fu perseguitato politico e deportato a Mathausen assieme a numerosi antifascisti e resistenti toscani arrestati nel giugno ‘44. Lì morì il 6 aprile 1945.
2 pietre: Gastone e Umberto Angelo Volterra
Gastone Volterra, figlio di Gustavo Volterra e Adele Melli è nato in Italia a Firenze il 6 ottobre 1887. Fu arrestato a Firenze il 31 gennaio 1944 insieme al figlio Umberto Angelo e deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Nessuno dei due è sopravvissuto alla Shoah.
2 pietre: Alberto e Pierluigi Guetta
Figli di Dante Guetta e Irma Varios, i fratelli Guetta sono nati a Livorno nei primi anni venti. Vengono arrestati il 27 marzo 1944, durante un rastrellamento ad opera di un reparto tedesco, nelle campagne attorno a Gubbio e fucilati con un colpo alla schiena.
1 pietra: Piero Viterbo
Piero Viterbo, figlio di Guido Viterbo e Elda Fornari è nato a Livorno il 10 febbraio 1922. Arrestato a Scheggia, vicino a Gubbio, insieme ai fratelli Guetta. Furono uccisi con un colpo di fucile alla schiena il 27 marzo 1944, mentre si allontanavano insieme agli altri prigionieri, che nel frattempo furono rilasciati.
2 pietre: Enrico e Olga Renata Castelli
Olga Renata Castelli, nata a Palermo, fu arrestata insieme al padre, Enrico, a Firenze, lei aveva 25 anni, il padre 75. Furono deportati entrambi da Fossoli ad Auschwitz il 16 maggio 1944, non sopravvissero alla Shoah.
2 pietre: Elena e Ernesto Calò
Elena e Ernesto Calò, figli di Samuele Calò e Rosa Procaccia furono arrestati a Firenze e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz. Nessuno dei due è sopravvissuto alla Shoah.